La primavera fiorisca e germogli vita dopo la malattia

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La primavera fiorisca e germogli vita dopo la malattia

Una testimonianza di don Franco catapultato nell’orrore della pandemia (08/04/2020)

 

La primavera fiorisca e germogli vita dopo la malattia  La primavera fiorisca e germogli vita dopo la malattia

 

I coronavirus sono virus a RNA che, nell’essere umano, causano per lo più infezioni respiratorie lievi e limitate alle vie aeree superiori (tratto naso-faringeo, seni paranasali e gola), e solo in rare circostanze infezioni respiratorie gravi ed estese alle vie aeree inferiori (bronchi e polmoni).

Assieme ai rhinovirus, ai virus influenzali e ai virus parainfluenzali, i coronavirus rientrano tra i principali agenti scatenanti il raffreddore. I coronavirus sono virus che normalmente circolano tra gli animali.

Alcuni di loro, tuttavia, hanno la capacità di infettare anche l’essere umano, il che li rende naturalmente oggetto di studi scientifici.

Le infezioni risultanti da virus capaci di trasmettersi dagli animali all’essere umano sono meglio conosciute come zoonosi.

Perché si chiamano Coronavirus?

I coronavirus devono il loro nome al fatto che, al microscopio elettronico, si presentano come una sorta di bulbo frangiato, che ricorda molto una corona regale o la corona solare.

A costituire la frangia che circonda il bulbo – che è l’elemento virale entro cui risiede il genoma a RNA – sono i peplomeri, strutture proteiche necessarie al tropismo (cioè al movimento) dell’agente infettivo.

Il termine “coronavirus” è frutto dell’unione della parola latina “corona” – che in italiano vuol dire “corona” o “alone” – e della parola virus.

Storia dei Coronavirus

La prima descrizione dei coronavirus risale al 1960, dopo che alcuni ricercatori avevano analizzato nei dettagli alcuni casi di raffreddore.

Nel novembre 2002, i coronavirus si imposero all’attenzione del mondo, in quanto una loro particolare variante diede avvio, in Cina, a un’epidemia di una nuova malattia infettiva delle vie respiratorie molto aggressiva, denominata SARS o Sindrome Acuta Respiratoria Grave.

L’epidemia di SARS si concluse nel 2003 inoltrato e interessò molti altri Stati dell’Asia (es: Hong Kong, Taiwan, Vietnam e Singapore) e non solo; secondo le stime più attendibili, limitatamente alle regioni Asiatiche, la SARS contagiò più di 8.000 persone, fu responsabile di quasi 800 morti e dimostrò di avere un tasso di letalità del 9,6%.

Ho introdotto queste note, perché, ricoverato alla Clinica di Malattie infettive del Policlinico S.Matteo di Pavia, mi sono trovato catapultato nell’orrore della pandemia e passerò la Pasqua a liberarmi da questa corona di… spine. Sono sempre stato allergico alle Graminacee e le mie vie respiratorie si sono dilatate in tanti anni di allenamento a rincorrere i ragazzi della Comunità Casa del Giovane, di cui sono diventato responsabile dopo la morte del Fondatore, il Servo di Dio don Enzo Boschetti: compiuti 30 anni, appena diventato sacerdote ho respirato a pieni polmoni la responsabilità e ho sperimentato il fiato corto che si prova nella costante tensione a dare vita e speranza a chi non vuole vincere la paura di morire. Questa tensione verso la vita non mi ha mai abbandonato e così ho provato a insegnare, a collaborare con le istituzioni, a inventare progetti con l’unico scopo di salvare qualcuno, se non proprio molti. Qui finisce l’aspetto biografico retrospettivo.

Ora, mi trovo in un’altra battaglia, inaspettata e terribile, a condividere il campo con coraggiosi compagni: il mio confratello che ha donato ad un giovane il suo respiratore, i sacerdoti morti per rispondere alla loro chiamata e per stare insieme al proprio popolo, gli anziani nelle case di riposo, negli ospedali, nei pronto soccorso, i medici, gli infermieri e gli oss che si sacrificano da mesi per alleviare la fatica di coloro che sono stati colpiti da una malattia che è diventata pandemia.

E il pensiero torna indietro al cuore ferito della Lombardia, dove le condizioni climatiche hanno visto le polveri sottili sostituire la nebbia, ai ritmi frastornanti di incontri senza più giorno né notte, alle fasulle strette di mano e ai contagi empatici che non nutrono più. E ancora si allarga allo sfruttamento sconsiderato del suolo, al terreno violato e reso produttore di gas letali e di mangime nocivo, all’acqua inquinata, alla cieca avidità che sta distruggendo i polmoni della terra, allo sfruttamento sconsiderato degli animali, all’intensificazione delle produzioni che hanno distribuito lavoro e ricchezza in modo diseguale… ora ci siamo fermati. Davanti a un sistema sanitario territoriale rapinato dalla volontà di contenere la spesa siamo stati costretti ad erigere ospedali da campo con personale straniero, siamo stati toccati dall’angoscia di morire da soli, dalla paura del bombardamento di notizie, dove chiunque parli si sente virologo, dalla privazione delle libertà costituzionali che, uniche, ci hanno permesso di frenare il contagio, ma non di vincerlo.

Ci siamo fermati nell’angoscia profonda, quando ti prende la fame di aria, la paura di non avere più appetito, le scariche continue nel tuo bagno e il terrore che il tampone ti condanni e ti trascini nel vortice della respirazione forzata. Sono stato in debito di ossigeno davanti a una dottoressa che, con l’inganno, promettendomi che non mi avrebbe fatto ricoverare, mi ha diagnosticato il coronavirus. Ho subito pensato a quale fratello o sorella ho visitato in un gesto fraterno trasformatosi in malattia contagiosa, a quale incontro abbia cancellato con un colpo di spugna il dubbio sull’onnipotenza e mi sono visto trascinare in un mondo di sofferenza, di sperimentazioni, di esami continui, di speranza di tornare a casa, tra gente chiusa nei respiratori con due soli buchi, uno per respirare e uno per bere. Sono stato, così, nella camera dove era appena morto un mio fraterno amico, sono stato completamente rivoltato, come un calzino, nel tentativo di capire se la polmonite aveva creato altri problemi curabili solo in terapia intensiva. Ed eccomi ancora qui, dopo quindici giorni, a raccontare l’enorme numero di persone intubate con cui ho condiviso la prima notte, la paura negli occhi stanchi dei giovani dottori, la diagnosi che diventava certezza e la ricerca del posto letto… e finalmente passa la paura della prima notte, i primi interventi sul controllo della terapia, la cura di avere sempre il supplemento respiratorio, il tampone, l’esame del sangue, la richiesta di aderire ai più recenti protocolli sia di cortisone sia di terapie per le patologie reumatiche. Sei costretto a compiere un atto di fiducia, perché non hai nessun altro contatto sociale e sei nelle mani di chi ti solleva un attimo e ti monitora per avere da te quei risultati che tardano sempre a venire. Così passano i giorni, divori quello che ti danno da mangiare, ti commuovi dei gesti di amicizia e senti che sei, come tanti, nel segno di una provvidenza infinita. Puoi solo affidarti, le vene sono ormai tutte segnate, il braccio si è gonfiato e le lacrime scalfiscono il ruolo che ricopri nella vita, nel quale ti rappresenti inaffondabile. Tutta la giornata trascorre nella preoccupazione per la tua salute, strappato da tale pensiero solo dall’umanità dei sanitari, deluso dal ritardo del momento in cui lascerai la tua camera d’ospedale, stufo di ogni misurazione e di ogni ricerca di cause e di effetti sul tuo corpo. Poi, il primo tampone negativo, il respiro meno affannoso, il ritorno dell’appetito, la ricerca del contatto umano, l’aiuto reciproco nella stanza, le piccole delicatezze.

Attendo un periodo pasquale in cui davvero i simboli della vita siano come la primavera che fiorisce in un corpo che sembrava morto, risveglia i profumi e si libera delle fatiche del corpo, riacquistando la bellezza dell’incontro umano. Sono ancora convalescente, devo la mia vita ai sanitari, non trascurerò questa lezione, imparerò a non esagerare e a non pretendere, e cercherò di far fiorire la stagione della fraternità.